Dove mangiare a Bra: L’Alfieri

La domenica mattina mi piacerebbe svegliarmi presto, stirare velocemente quello che mi servirà durante la settimana, prendere un caffè al volo e partire. Potrei andare a camminare in montagna, fare una gita fuori porta, magari a Torino. Nove volte su dieci però, la pigrizia ha la meglio su tutti i buoni propositi: mi giro dall’altra parte e continuo a dormire fino a quando uno dei gatti mi implora di dargli qualcosa da mangiare.

Nelle vacanze di Natale ho più o meno fatto il pieno di sonno, al punto tale da riuscire, un mattino, a scendere dal letto prima delle dieci. Indosso i “vestiti da camminata” – leggings, scarpe da running, maglia termica, giacca antivento – e sono pronta per andare a Bra a piedi. Appena tre chilometri, per carità, non sto parlando della maratona di New York, ma la temperatura si aggira intorno allo zero e da casa mia la strada è tutta in salita, in mezzo a campi e boschi.

Non ci si impiega più di quaranta minuti; mi fermo qua e là per indicare al mio compagno i punti in cui in primavera cresce il luppolo selvatico e per guardare – proprio come i pensionati – a che punto sono i lavori lungo la ferrovia. Dopo l’ultimo tratto in salita arriviamo a destinazione, sulla piazza che porta il nome di una tristissima città alla periferia di Zurigo con la quale Bra è gemellata. Chissà perché con tutti i posti carini che ci sono nel mondo noi abbiamo scelto di gemellarci proprio con un paesone che è un susseguirsi di centri commerciali? Senza una risposta, superiamo la piazza, lasciandoci la pizzeria più famosa della città alla spalle: forse è l’odore di olio bruciato dei fritti della sera prima che ancora aleggia nell’aria a ricordarci che non abbiamo fatto colazione.
Attraversiamo un’altra piazza, quella del mercato, e ci troviamo di fronte all’Alfieri. Si trova in una delle vecchie case a due piani dipinte a colori tenui, dall’ocra al giallo pallido al beige. Se dovessi vivere in centro, non mi dispiacerebbe abitare in uno di questi edifici dai pesanti portoni di legno, con i balconi che sembrano pendere in avanti e gli ampi cortili interni sui quali si affacciano i ballatoi.

L’Alfieri attuale ha preso il posto di quello che un tempo era uno dei bar più vecchi della città. Lo ricordo quando ero bambina, con i pavimenti di linoleum scuri, i banconi di laminato marrone, una triste imitazione del legno, con le bordature di acciaio. Era sempre buio lì dentro, e i due proprietari sembravano costantemente di pessimo umore. I clienti – tutti parecchio in là con gli anni – erano immobili come statue ai tavolini di formica sui quali erano appoggiati bicchieri spessi e bassi, pieni di un liquido ambrato che poteva essere Cynar o Fernet Branca. L’odore che c’era entrando nel bar ce l’ho ancora in mente a distanza di anni: un misto di aria stantia e di abiti impregnati di fumo.

Come succede sempre da queste parti, quando un’attività chiude e iniziano i lavori per quella che prenderà il suo posto, nel giro di poche settimane è iniziato il toto scommesse: metteranno una lavanderia a gettoni; no, io ho sentito che apriranno un negozio di parrucchiera – un altro, ma non ce ne sono già abbastanza qui; se fossero i cinesi o, peggio, un kebab! Queste i pronostici dopo la chiusura del vecchio bar. Da come avrete capito, gli abitanti del posto tendono a essere leggermente diffidenti verso le novità. Al punto che un bel giorno si è scatenato il panico quando si è sparsa la voce che forse il nuovo proprietario era originario del Belgio o addirittura del Lussemburgo. E di nuovo largo allo scompiglio: un belga, uno del nord, cosa ne sa di cucina; là non sanno fare il caffè; ma poi, dov’è questo Lussemburgo? Queste più o meno erano le chiacchiere di mia nonna, delle sue amiche e di tanti altri in città.

Ora, io non so se il ragazzo dietro il bancone dell’Alfieri sia belga o lussemburghese: ha un accento straniero che non riesco a collocare, è gentile e ci dice di accomodarci dove vogliamo. Da subito è evidente che il locale è stato migliorato rispetto all’epoca in cui era un bar per soli giocatori di scala quaranta: la vecchia carta da parati è stata rimossa per lasciare spazio alle pareti di mattoni e intonaco a vista. L’arredamento è minimal, con un grande tavolo centrale e altri tavolini più piccoli accanto alle finestre o addossati alle pareti. I cuochi si danno da fare dietro la vetrata della cucina a vista, mentre gli altri commensali scelgono i vini da una lavagna che viene fatta passare da un tavolo all’altro.

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Se avessi con me il portatile potrei tranquillamente accenderlo e chiedere la password per il Wi-Fi senza sentirmi tutti gli occhi puntati addosso. Perché sappiate che se mai verrete qui, in molti posti troverete almeno due o tre persone che vi guarderanno con curiosità se doveste accendere un laptop o leggere un libro sull’iPad. Ma d’altra parte, forse succede un po’ ovunque nei piccoli paesi, soprattutto se entrate in un locale per mangiare da soli. Forse è proprio per questo motivo che durante i miei primi viaggi di lavoro da sola mi sentivo a disagio a cenare senza un compagno di pasto: magari è una paura atavica per chi, come me, è nato e cresciuto in un piccolo paese di provincia. Ma qui all’Alfieri ci verrei anche da sola, senza provare disagio. Chiederei alla ragazza sorridente una spremuta di arancia, fresca e dissetante.

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Poi ordinerei dal menu uno dei piatti del brunch: Scrambled Eggs con bacon e patate al forno, Eggs Benedict con prosciutto, Eggs Norwegian con salmone affumicato, oppure i pancakes o, ancora, un French Toast. Nell’attesa, se fossi da sola, sfoglierei uno dei libri di ricette esposti sullo scaffale accanto al tavolo, o scambiarei due parole con la chef, cercando di scoprire di più sulla sua storia e su quella del proprietario (a questo punto sono convinta che lui si sia trasferito dal Belgio o dal Lussemburgo per vivere con lei qui in Italia).
In cucina si danno da fare, e i piatti arrivano in fretta: Egg Benedict con muffin inglese e salsa olandese per me, uova strapazzate con bacon per il mio compagno. Doveva essere un brunch leggero, ma i dolci esposti sono una tentazione irresistibile, soprattutto la Tarte Tatin e il tiramisù.

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Rimangono ancora da provare gli hamburger e le zuppe, così come i cocktails e le birre artigianali, di cui ho sentito tanto parlare. Forse i più diffidenti non si lasceranno tentare, ma io voglio tornare il prima possibile in questo posto così accogliente.

32 pensieri riguardo “Dove mangiare a Bra: L’Alfieri

  1. Caffè delizioso, uno di quelli in cui, come hai detto tu, è bello sedersi, aprire il portatile, ordinare e restarci per ore. Mi piace che tu abbia sollevato la questione del mangiare da soli, un’abitudine che trovo molto rilassante all’estero e molto stressante in Italia, dove ancora – perfino a Milano – fa sentire a disagio. I camerieri chiedono subito: “sei sola?” e già questo approccio è sbagliato. A Londra mi sono sempre seduta dove volevo, con il mio laptop, e sono sempre stata una fra tante persone che lavoravano e mangiavano sole. Eppure non demordo!

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    1. E invece io pensavo che almeno nelle grandi città italiane avessero una mentalità più aperta! All’inizio mi sentivo in imbarazzo e in certi casi anche un po’ “in colpa” a dover occupare un tavolo da due, ma come dici tu è l’approccio di tanti camerieri e ristoratori a essere sbagliato.
      Fai bene a non demordere 😉

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  2. Ciao Silvia, qualcosa mi dice che metterai residenza in questo locale ^_^ Io mi legherei a quelle sedie come l’Alfieri Vittorio da cui prende il nome il locale (perchè è dedicato a lui vero?)
    Proprio carino ed accogliente, quando lo scopri facci sapere se il proprietario è davvero Belga! 😀 😀
    Che ne parliamo a fare, quaggiù guardano strano anche se il marito/compagno si allontana un attimo in bagno o a fumare una sigaretta fuori…
    Buona domenica, un bacio!

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  3. Mmm invintanti le Norwegian Eggs, quasi quasi adesso… 😀 Carina la storia del proprietario belga, qua vicino casa ha aperto da poco un localino che fa dei waffle spettacolari, ha anche delle birre belghe buonissime. Ero convinta il proprietario fosse belga, gli ho chiesto da quale città venisse esattamente e mi risponde: “Damasco”. Un siriano che apre un “waffle bar” a Budapest, la vita non smette mai di sorprendermi 🙂

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  4. Ciao Silvia! Sai…proprio ieri pensavo di prendere il portatile e sedermi un bel posticino sorseggiando e mangiando qualcosa di buono, ma ho realizzato che qui nei miei paraggi non ce ne sono! O almeno io non ne conosco neanche uno (devo informarmi). Questo sarebbe stato proprio il posto adatto dove sedermi, scrivere e assaggiare tutte le cose che hai elencato *-* Come al solito mi hai catapultata nel tuo racconto come se fossi stata con te..Bravissima! A presto!

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  5. Ma alla fine questo Lussemburgo, l’avete trovato? No perchè io sono curiosa. Allora, devi sapere che io mangio alla mia scrivania in ufficio e questo tuo post mi ha appena fatto osservare la stanza con un’amarezza indescrivibile. Il mondo sarebbe migliore se ci fossero più posticini come quello, dove poter passare del tempo in relax

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  6. Quel tiramisù… che dolore guardarlo senza poterlo assaggiare or ora. Comunque, prendi così tanto quando racconti qualsiasi cosa e sei stata così piena di passione nello scrivere di questo posto che, nonne chiacchierone e vecchi proprietari musoni a parte, ti viene proprio voglia di andarci in questo posto. Se non sei la loro ospite d’onore, dopo questa…

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  7. la domanda vera è…. come c’è finito un belgalussemburghese a Bra??? a Bra?! Ho vissuto lì 5 anni quando ero ancora bambina. Mi sembra ancora strano leggere di Bra sui blog di viaggio, sai? Penso che negli anni sia cambiata molto, io ci torno raramente, di solito ogni due-tre anni anche se la distanza da Genova non è tanta. A volte è solo una toccata e fuga per poi andare verso le Langhe e la Morra, dove ho parte della famiglia….

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