Disavventure in viaggio: once upon a time in San Francisco

Sembrano passati secoli dal mio primo viaggio negli Stati Uniti, e in effetti forse è proprio così. Tante cose sono cambiate da allora, ma il ricordo di quella vacanza è ancora vivido. Colori, profumi e sapori che riemergono: basta chiudere gli occhi per essere di nuovo catapultata a San Francisco. Una scelta un po’ insolita come prima meta da visitare in America, ma mi capita spesso di voler vedere una città perché, per qualche motivo, penso che mi piacerà.

Ed è stato proprio così. Dieci giorni trascorsi tra San Francisco e dintorni, spostandoci da una parte all’altra con mezzi pubblici e traghetti.

In un’epoca in cui facevo le cose senza pensarci troppo e senza programmare con largo anticipo, dopo aver visto per caso un cartello pubblicitario di un’agenzia di viaggi lungo il Fisherman’s Wharf, decisi di entrare e di prenotare il tour di un giorno a Monterey e Carmel-By-The-Sea.

San Francisco cable car

La mattina successiva all’alba siamo di nuovo davanti all’agenzia, pronti per partire insieme agli altri passeggeri, per lo più americani in vacanza. Il viaggio è piacevole, e ci accompagna una di quelle belle giornate di sole in cui, per via della brezza costante, rischi di ustionarti anche il cuoio capelluto e le mani senza rendertene conto. La nostra prima tappa è Monterey, dove però non c’è tempo per vedere il famoso acquario, ma solo per un pranzo veloce a base di lobster roll, hamburger e un paio di birre. E via di corsa verso la prossima meta.

Monterey

Non le ricordo tutte, ma mi è rimasta impressa Carmel-By-The-Sea con la sua spiaggia lunghissima, le caffetterie una più bella dell’altra, le librerie e le case colorate. Le altre tappe sono un po’ confuse, anche per via dei minuti contati concessi dall’autista dell’autobus per scendere, scattare qualche foto, ammirare il paesaggio e poi di corsa ai nostri posti. La colonna sonora della giornata è memorabile, e proprio mentre iniziamo a scorgere la luci di San Francisco, mi ritrovo a canticchiare insieme agli altri passeggeri. Come loro, I’m picking up good vibrations.

Peccato che non durino a lungo. Viene fuori che il punto di arrivo del tour non è lo stesso della partenza. Troppo lontano dal nostro albergo e anche da Union Square, dove vogliamo fermarci per cenare, visto che abbiamo una fame da lupi. Così chiediamo all’autista se può fermarsi e farci scendere, poiché ci sembra di non essere lontani da dove vogliamo andare. Mi domanda se sono sicura, visto che questo è il Tenderloin. “Yes, sure“, gli rispondo, e lui ricambia con un “Suit yourself“.

Appena le porte si chiudono, mi rendo conto dell’errore. Mi torna in mente quello che mi aveva detto una mia collega originaria di San Francisco a cui avevo chiesto consigli su quale zona scegliere per l’albergo. You don’t wanna go to the Tenderloin. Ora le sue parole mi risuonano in testa. Magari non volevo andare nel Tenderloin, ma ora sono qui. Ed è troppo tardi per correre dietro all’autobus pregando l’autista di farci risalire.

Verrebbe da dire che non è poi così male come scelta perché, in fondo, il Tenderloin è a un quarto d’ora a piedi da Union Street. Quello che non va bene è che questa zona è nota per l’alto tasso di criminalità, per l’elevata percentuale di senzatetto, prostitute e spacciatori. Un quartiere dove furti, rapine e aggressioni sono all’ordine del giorno. Un’area malfamata, in poche parole, dove è sconsigliato camminare da soli, in particolare la sera. Non so se nel frattempo le cose siano cambiate, ma nel 2003 non era certo il posto ideale in cui fare una passeggiata tranquilla prima di cena. Nessun cable car colorato, nessuna strada con vista sul Bay Bridge da queste parti.

San Francisco Bay Bridge

Cerchiamo di mimetizzarci in mezzo alla fauna che popola queste strade, ma non c’è molto che possiamo fare. Non abbiamo nemmeno una felpa scura con il cappuccio, ma siamo vestiti come due turisti in vacanza: sandali, pantaloncini corti e occhiali da sole infilati nel colletto della t-shirt. Difficile far finta di non vedere i tanti senzatetto e gli ubriachi coricati in mezzo ai marciapiedi, o i ragazzi in gruppetti di due o tre che stazionano agli angoli delle strade. Tutto è stranamente silenzioso, se non fosse per il rumore di una palla da basket che continua a rimbalzare a terra dopo l’ennesimo tentativo fallito di fare canestro da parte dei giocatori improvvisati.

Il campo da basket sembra lungo quanto l’isolato, con alcuni ragazzi che senza troppo entusiasmo provano qualche tiro e poi si lanciano rumorosamente contro la recinzione di metallo del campo, facendo tintinnare collane, bracciali e anelli. Cerchiamo di non guardarli troppo e di fingere di essere a nostro agio, come se capitassimo sempre da queste parti, ma ci sentiamo osservati. Forse è un’impressione, ma le scene peggiori dei film mi passano davanti agli occhi.

La nostra destinazione non deve essere lontana: dobbiamo ancora superare un paio di isolati e qualche incrocio con altri gruppi di ragazzi assembrati attorno a un ghetto blaster. Temo che presto ci ritroveremo in una scenda di Do the Right Thing. Se non al prossimo incrocio, sicuramente a quello dopo. Perché tutti i indossano un cappellino e hanno il cappuccio della felpa alzato? Sarà per non farsi riconoscere dai poliziotti di pattuglia? Ah no, non c’è nemmeno una macchina della polizia nei paraggi!

Ma soprattutto, perché tengono le mani in tasca? Forse al nostro passaggio estrarranno un coltello da caccia o una pistola con il numero di serie cancellato e ci deruberanno, portando a casa un misero bottino fatto di due cellulari Nokia e dei pochi dollari che abbiamo in tasca. Il primo pensiero che mi viene in mente è che per fortuna abbiamo lasciato i passaporti in albergo, per rendermi conto quasi subito che con una pallottola nella pancia non me ne farei niente dei documenti.

Come succede sempre la sera a San Francisco, la temperatura è scesa notevolmente, ma noi siamo comunque sudati come due maiali. È sudore freddo, quello dello stato di shock.

Appena svoltiamo su Geary Street, il panorama cambia. Ci ritroviamo in una zona che conosciamo e, mentre attendiamo il verde al semaforo pedonale, scorgiamo le sagome famigliari degli edifici di Union Square. E l’insegna del diner dove rincuorarci con due porzioni di polpettone e un paio di milkshake al cioccolato.

18 pensieri riguardo “Disavventure in viaggio: once upon a time in San Francisco

  1. Avete avuto un gran bel coraggio. quando abbiamo organizzato il viaggio on the road in california ci sconsigliarono fortemente di visitare San Francisco in autonomia, e infatti abbiamo cambiato rotta, optando poi per tornare al sud. eppure è una città che mi piacerebbe tantissimo vedere, è così iconica! Spacciatori a parte…

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  2. Alcune volte, quando ti “perdi” in zone che non dovresti conoscere, il sudore freddo si sente eccome! Mamma che ansia sarebbe venuta a me, perchè poi in quelle circostanze vedi nero anche quando non c’è nulla di pericoloso… O forse si?

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  3. Noi abbiamo visitato San Francisco nel 2009 e ne abbiamo un ricordo fantastico. Le disavventure possono capitare ovunque e ogni città possiede i suoi quartieri malfamati. Ricordo benissimo Parigi quando ci siamo letteralmente catatultati giù per le scale di una metro per evitrare una gigantesca rissa al centro di Pigalle.

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  4. San Francisco deve essere meravigliosa (non ci sono ancora stata). Non voglio essere banale ma credo che, come è stato già detto, ogni grande città abbia almeno un quartiere da evitare. La cosa importante è che sia andato tutto bene.

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  5. lo so, non dovevi ridere ma l’ho fatto! Ho percepito il terrore in ogni singola parola ma non rido proprio perché per fortuna vi è andata bene! La prossima volta quando l’autista ti chiede se sei sicura di scendere qui, tu rispondi NO!

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  6. Mi hai tenuta fino all’ultima parola col fiato sospeso! Però più che attraversare un intero quartiere di delinquenti io avrei sofferto la reazione di Orso. Già immagino i vari “te l’avevo detto”, altro che polpettone finale. Suit yourself dev’essere risuonato tanto sinistro mamma mia!😂 Il quarto d’ora più brutto passato in viaggio… l’ansia!  Per fortuna è andato tutto bene e l’hai potuto raccontare. E magistralmente 🙂

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  7. Ho riconosciuto le sensazioni… le ho provate simili a New York una sera che ho sbagliato la fermata dell’autobus nel Bronx. In realtà le “cuffiette” scure che portavano i neri e i cappucci delle felpe rialzati era un segno di appartenenza a determinati gruppi però io ero terrorizzata e, come te, ho sudato fino a che non ho riconosciuto all’angolo la fermata dove avrei dovuto scendere. Comunque tutto è bene quel che finisce bene e voi siete stati coraggiosi e anche un pò fortunati

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