In viaggio col capo: quando il boss non c’è… il topo esplora Cambridge

Volare dall’Italia fino a Boston e non muoversi da Cambridge, in Massachusetts, non è una mossa intelligente. Sarebbe un po’ come arrivare a Roma e poi rimanere ad Aprilia. Ma quando si è in viaggio con il capo, ogni suo desiderio è un ordine. Così, subito dopo l’arrivo in aeroporto la sera tardi, accompagno il boss in albergo. Il suo è un quattro stelle nel centro di Cambridge, il mio è un motel dall’altra parte della strada con la reception triste e l’ascensore fuori servizio. 

Per fortuna la camera è al secondo piano, quindi riesco a salire le due rampe di scale con il trolley senza svenire lungo i corridoi illuminati dalla scritta al neon che lampeggia all’esterno.

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Il mattino successivo mi sveglio in una stanza che poche ore prima non mi era sembrata così polverosa e spartana, decorata in cinquanta sfumature di arancione. Ho appuntamento con il capo nel suo albergo, da dove, insieme a un altro collega, dobbiamo partire per Boston per un’intervista in radio. Non c’è il ristorante nel mio motel, per cui niente colazione: solo caffè istantaneo in un bicchiere di polistirolo. Tra poco però vedrò Boston e le sue case di mattoni rossi è l’idea è sufficiente per farmi vedere solo il lato positivo delle cose.

La giornata non è delle migliori: l’aria fredda e il cielo grigio non promettono niente di buono. Cerco di non vedere similitudini con l’umore del capo, sperando di trovarlo un po’ meno cupo delle nuvole sopra la mia testa. Quando arrivo davanti all’hotel sta già parlando con il nostro collega americano, pronto a partire alla volta del centro di Boston. Che purtroppo non vedrò perché il boss si siede sul taxi e mentre apro la porta per salire in macchina, mi annuncia che non andrò con loro. Ho una missione più importante: trovare un posto dove cenare quella sera. Mi sta chiaramente prendendo in giro, ma prima che riesca a rendermene conto, se ne vanno senza di me. Ancora un po’ e diceva al tassista di partire sgommando.

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Potrei prendere un altro taxi e passare qualche ora a Boston, ma poi correrei il rischio di farmi trovare impreparata al ritorno del boss. Mi rassegno a passare la giornata a Cambridge, decisa a trovare qualcosa per cui valga la pena di trascorrere qualche ora in questa città.

Il primo motivo per cui vale la pena di fermarsi a Cambridge è senza dubbio la colazione al Charles Hotel. Un po’ perché ho fame, un po’ perché sono indispettita per essere stata lasciata indietro, mi presento all’Henrietta’s Table, il ristorante dell’hotel in cui alloggia il capo, decisa a far addebitare la mia colazione sul suo conto. In questo locale un po’ shabby chic lo chef Peter Davis ha creato un menu che si basa su ingredienti locali e ricette tradizionali del New England. Il suo motto fresh and honest si rispecchia nei piatti semplici: il succo d’arancia è fresco e le uova in camicia con il prosciutto affumicato sono ottime. Peccato per il tempo incerto, che non mi permette di gustare la colazione sul terrazzo esterno.

Lascio il ristorante dopo aver firmato con nonchalance la ricevuta di addebito sulla camera del boss, diretta verso la piazza principale. A pochi minuti a piedi dall’hotel si trova la Harvard University, una delle università della Ivy League. Una volta attraversato il Johnston Gate, sembra di entrare in un’altra epoca. Cammino tra i viali del campus, dove ho l’impressione di trovarmi in una città dentro la città. Arrivo fino all’Old Yard, il cortile sul quale si affacciano i Freshman Dorms, i dormitori degli studenti del primo anno, immaginando le loro vite oltre le finestre di questo severo edificio. Proseguo fino alla John Harvard Statue, la statua del benefattore dell’università. Poco più in là si trova la Widener Library, la biblioteca del campus: mi intrufolo sotto il portico di colonne che rende l’edificio più simile a un tempio che a un luogo di studio, per scoprire che l’accesso è riservato agli studenti e al personale docente. Non vedrò mai i preziosi volumi custoditi oltre la porta, quindi mi dirigo verso Massachusetts Avenue, fiancheggiata da un lato dalle cancellate del campus e dall’altro da edifici bassi in mattoni rossi.

La strada ha un’aria tranquilla e un po’ fuori moda, come molti dei negozietti che vi si affacciano. Il primo che incontro è Leavitt & Peirce: vende tabacco e tutto quello che è associato all’arte del fumo. Mi attirano la vetrina e l’insegna a caratteri dorati su sfondo nero, che si accompagnano perfettamente agli interni del negozio, con gli scaffali in legno e i banconi con la merce esposta sotto i ripiani di vetro: rasoi, gemelli, porta monete, accendini, bastoni da passeggio. Oggetti che appartengono a un’epoca passata, come i contenitori – almeno una quarantina – che vendono diverse varietà di tabacco a peso, come se fosse caffè. Non compro nulla, ma almeno mi sono riparata per un po’ dal freddo.

Poche centinaia di metri più in là si trova un altro negozio dove per qualche minuto si può fingere di essere uno studente di Harvard, vagando tra i banchi sui quali sono esposti i volumi dell’Harvard Book Store. Il profumo dell’inchiostro sulla carta è inebriante, e si mischia a quello della pioggia che ha iniziato a cadere leggera, oltre le ampie vetrate.

Mi sposto da un tavolo all’altro, non osando fare come la maggior parte dei clienti che hanno preso dei volumi dagli scaffali e li stanno leggendo comodamente seduti sulle poltrone. Compro un paio di libri e ne approfitto per rimpiazzare la mia borsa per il computer: il giorno prima, all’aeroporto di Monaco, la tracolla ha deciso di strapparsi costringendomi a tenere la borsa in mano, come una cartella. Questo nuovo acquisto – insieme alle due t-shirt con la scritta Harvard University – mi permetterà di illudermi per un po’ di aver davvero studiato qui.

Torno verso l’hotel, per aspettare il capo e il mio collega, ma prima di rientrare faccio una breve sosta all’Algiers Coffee House, dove a un minuscolo tavolino del secondo piano ordino un caffè americano, godendomi la vista sui tetti di quest’angolo di città e sulle stradine rese lucide dalla pioggia.
Pochi minuti dopo, mentre aspetto il verde del semaforo pedonale, mi rendo conto di essermi dimenticata del motivo per cui sono rimasta qui invece di andare a Boston. Non ho prenotato il ristorante per questa sera. In preda al panico, cerco su Google Maps i locali più vicini.

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Evito a malincuore il John Harvard’s Brewery, un birrificio dove non mi sarebbe dispiaciuto provare qualche birra insieme a una mezza dozzina di ostriche. Ma immagino che non sia il posto adatto al capo: decido di provare con il Legal Sea Foods, un ristorante di pesce poco lontano. Corro come se fosse la maratona di Boston, evitando gli ombrelli e le occhiate dei passanti mentre cerco di raggiungere il ristorante.

È un miracolo se non mi faccio investire da un ciclista o, peggio ancora, da un taxi con il capo a bordo. Cerco di riprendere fiato, leggendo i piatti sul menu esposto sulla porta. Tutto sommato potrebbe piacergli: vongole fritte, tortini di granchio, diversi chowder e altri piatti a base di pesce del New England. Entro e prenoto un tavolo per tre: spero che il posto sia di suo gradimento, altrimenti farò la fine degli spiedini che il cameriere sta portando a uno dei tavoli.

Articolo pubblicato in origine su Non Solo Turisti – Illustrazione di Stefano Tenti – In World’ Shoes: tutti i diritti riservati all’autore

47 pensieri riguardo “In viaggio col capo: quando il boss non c’è… il topo esplora Cambridge

  1. Durante il nostro viaggio nella East Coast, abbiamo fatto un saltino anche a Cambridge per vedere l’Università di Harvard. Devo dire però che questa visita non mi ha emozionato quanto credevo; del resto della città abbiamo visto molto poco. Forse dovrei tornarci!

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  2. Cara Silvia, leggerti è sempre molto divertente. Hai una scrittura molta coinvolgente, accattivante e per certi aspetti “tagliente”. Ho letto questo tuo racconto tutto d’un fiato e ora sono curiosa di sapere se il boss ha gradito il ristorante … direi proprio di sì, altrimenti non saresti qui a parlarne, no?! 😉
    Comunque bellissima Boston, peccato che tu non sia riuscita a vederla, e carina anche Cambridge – sono stata a Boston solamente tre giorni, poi sono scesa verso NY e ricordo che anche io quando ero entrata nel Campus di Harvard ho avuto l’impressione di trovarmi all’interno di una città. Erano i primi di agosto e molti ragazzi stavano ancora sostenendo gli esami, altri, invece, stavano caricando le auto pronti per lasciare il campus e godersi l’estate.

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    1. Adesso ti devo fare una domanda. Anzi, tre.
      Il capo, dopo averti fatta dormire al motel dall’altra parte della strada, ti ha permesso di cenare al suo cospetto, o ti ha spedita ad un fast food?
      E la cena, è stata di suo gradimento?
      Ed infine, mi chiedo spesso leggendo i tuoi racconti…perché non lavori più per lui? Ti ha gentilemente scaricata… o sei tu che gli hai fatto ciao ciao con la manina!?

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      1. Andiamo con ordine:
        – sì, il capo ci permetteva quasi sempre di cenare con lui ma dato il personaggio avrei preferito il contrario
        – la cena non è stata di suo gradimento ma non lo era mai se non era lui a scegliere
        – dopo dieci anni passati così, a sopportare le sue angherie, non ho più resistito e appena si è presentata un’occasione me ne sono andata. Da allora sono rinata 😂

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  3. hahahaha sembra la trama di un film alla Bridget jones! Davvero crudele da parte del boss scegliere per i suoi dipendenti un hotel diverso. Se capitasse a me, lo odierei a morte! Ben fatto l’accredito della colazione sulla sua stanza (af##&%%&&&!!!!!!!!!!).

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  4. Silvia io ti rinnovo il suggerimento: fossi in te parlerei con qualche editore, sarebbe il caso di sviluppare un’opera letteraria!
    Ma… O_O l’hai fatto sul serio? Hai davvero firmato l’addebito? Mi sarei aspettata tipo un fulmine, un blackout della corrente, una scossa di terremoto come “segnale d’avvertimento” da parte di LUI 😛
    La t-shirt con la scritta Harvard comprata ad Harvard, che meraviglia… altro che le magliette dell’HRC!
    Sono curiosa anche io sull’esito della cena, ma chissà perché sospetto che ce lo dirai in un’altra puntata 😉

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    1. Ah ah non conosco nessun editore purtroppo, altrimenti non mi dispiacerebbe fare una proposta!
      Sì ho firmato l’addebito e ti confesso una cosa: non è stata quella l’unica volta. Io e una collega abbiamo pranzato a spese sue una volta in Messico nel ristorante del suo albergo 😅
      La cena è stata un disastro: lui non ha detto una parola…

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  5. quanto mi mancavano i tuoi viaggi col capo! Dai alla fine la giornata non è stata male e ti sei riposata lontano da lui… sono curiosa di sapere se alla fine il ristorante che hai scelto gli è piaciuto!

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  6. Bellissimo il tuo racconto. Non sai quanto mi incuriosisca la tua “vita passata”: dev’essere stato bello avere una celebrità (come la definisci tu) in qualità di capo. Mi rimarranno impressi il tuo triste hotel e il grigiore del primo mattino…

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  7. Graziee… avevamo bisogno di una lettura energica e vivace!! Come sempre i tuoi viaggi col capo sono sempre troppo divertenti!! Lavorando in università mi piacerebbe proprio visitare il campus di Harvard.. magari al prossimo OTR.

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  8. Viaggiare con il capo è molto spesso una noia mortale, ma tu sei riuscita a trasformare il tuo viaggio in qualcosa di piacevole. Anche a me è successo a Bologna e mentre lui era ad un convegno io passeggiavo per il centro. Ma alla fine la cena è piaciuta?

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  9. Sono andata a leggere anche i commenti per sapere se alla fine il capo avesse apprezzato o meno la scelta del ristorante! Probabilmente si sarebbe lamentato a prescindere, vero?
    Poco male, tu ci hai ricavato una splendida passeggiata sotto la pioggia tra la cittadina, il campus di Harvard (che sogno!!!) e la libreria.

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