In viaggio col capo: la presentazione alla Oxford University

La telefonata dall’ufficio presidenziale arriva come un fulmine a ciel sereno e quando dalla direzione mi comunicano che dovrò andare a Oxford col capo ho la tentazione di licenziarmi. Invece devo seguire le istruzioni, pianificare il viaggio e preparami psicologicamente. Verrà con noi Valeria, una delle assistenti del boss. Non ho mai viaggiato con lei ma va bene chiunque pur di non partire da sola con lui. In due ci divideremo le sfuriate che arriveranno puntuali come un treno delle ferrovie svizzere.

Le brutte notizie non arrivano mai da sole. Non è abbastanza che io debba partire con il peggior compagno di viaggio che uno possa desiderare: il capo decide che questa volta dovrò rivestire anche il ruolo di traduttrice. Spesso si affida a una professionista, ma io ho il vantaggio di non costare nulla oltre allo stipendio. Così capita a volte che oltre al fatto sgradevole di essere in giro in sua compagnia, io debba anche fare la traduzione consecutiva durante i suoi interventi.
Questa volta il capo è stato invitato a Oxford per presentare il suo libro in uno dei college della città. Una delle università più rinomate al mondo, un parterre di docenti e studenti, l’aula magna dell’ateneo: no pressure, come direbbero qui.

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Photo by David Jakab from Pexels

Per fortuna non siamo sullo stesso volo perché la sera prima della partenza il boss è ospite di una trasmissione televisiva, quindi volerà da Milano in business class, mentre Valeria ed io da Torino con Ryan Air senza posti assegnati. Facciamo tappa a Londra per la prima sera e come al solito lui soggiorna in un quattro stelle superiore vicino a Hyde Park, mentre noi ringraziamo tutti i santi perché la nostra guesthouse a Paddington ha il lusso del bagno in camera. Il capo ci concede il privilegio di cenare con lui ma non si degna di rivolgerci la parola. I tentativi miei e di Valeria di fare conversazione riescono a tirargli fuori solo mugugni. Forse non apprezza il cibo, e sicuramente non apprezza la nostra compagnia. Ma tutto sommato va bene così perché cerco di convincermi che il peggio sia passato.

Ma dovrei saperlo bene che quando c’è lui di mezzo non c’è limite al peggio. Il giorno seguente inizia a fare i capricci lungo il tragitto dall’hotel alla stazione. Non ama viaggiare in treno, soprattutto se il biglietto è in seconda classe.
“Non mi è stato riservato un vagone?”

Come se fosse normale avere un vagone intero tutto per noi. No, mi dispiace, con poco preavviso non ci sono riuscita, ma farò del mio meglio la prossima volta. Questa è la risposta che vorrei dare ma da brava sottoposta mi limito a un secco: “Temo di no.” Alla stazione di Oxford ci aspettano due sorprese: la prima è l’autista privato che ci risparmia lo sbattimento dei mezzi pubblici, la seconda è l’albergo. Gli organizzatori non hanno badato a spese, nemmeno per me e Valeria, e hanno prenotato per noi niente poco di meno che il Malmaison, un albergo che si trova in quella che un tempo era la prigione di Oxford.

Rispetto allo standard degli hotel prenotati in trasferta, questo è il paradiso. Un grande giardino esterno dove chi non è alle dipendenze di un despota può ordinare un English afternoon tea, stanze sontuose che affacciano su un altro giardino, SPA interna disposizione degli ospiti. Apro la porta della nostra camera carica di ottimismo, perché in un posto così sto già meglio e da qui in poi sarà tutto in discesa – invece si sente un boato riecheggiare nei corridori dell’albergo. Non è l’esplosione di un colpo del cannone in cima alla torre, ma il mio impermeabile molto British nuovo di pacca. Il passante della cintura è rimasto agganciato nella maniglia della porta e ora ho uno strappo lungo due spanne lungo la schiena.

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Vorrei piangere perché ho aspettato i saldi per poterlo comprare ma anche perché dovrò andare alla presentazione con il trench a brandelli. Valeria mi consola dicendomi che forse nessuno lo noterà – cosa che ritengo assai improbabile, con la fodera a quadri che esce dallo strappo – o che se anche uno degli ospiti dovesse accorgersene, nessuno dirà niente perché sono inglesi e fingeranno che sia tutto normale. La seconda opzione mi sembra molto più plausibile. Come cantava Max Pezzali, lasciamo l’albergo con le pive nel sacco e ci avviamo verso il college, dove so già cosa mi aspetta: il boss in forma smagliante in pubblico e altrettanto burbero con noi, pronto per una presentazione di quarantacinque minuti che io dovrò tradurre in inglese in consecutiva. Pur non avendo studiato interpretariato, nel corso degli anni ho più volte tradotto il capo durante interventi e presentazioni in inglese, e so bene che per la buona riuscita dell’evento non contano solo le mie capacità, ma anche l’abilità della persona che parla a lasciarsi tradurre. L’oratore deve sapersi interrompere nei punti giusti del discorso, mentre io devo impegnarmi a memorizzare il contenuto dell’intervento per poi riprodurlo.

Con un po’ di pratica ci si riesce, una volta superata l’ansia di parlare davanti a una platea. Ma soprattutto ci si riesce a patto che il capo non decida di essere crudele fino in fondo. Per rendere meglio un concetto, usa parole in dialetto perché “fanno colore” ma non si cura del fatto che spesso siano intraducibili o che richiedano una spiegazione elaborata. Dopo cinque minuti infila il primo piemontesismo, facendo riferimento al putagé, la stufa a legna che un tempo si usava nelle cucine di campagna per cuocere il cibo e per riscaldare l’ambiente. Per fortuna in Inghilterra c’è l’AGA, quindi rispondo al suo ghigno perfido con un sorriso ancora più malefico. Il pubblico capisce di cosa stiamo parlando quindi andiamo avanti lisci come l’olio. Fino al momento in cui racconta di quando sua mamma preparava un trito di verdure con il ciapull o mezzaluna. Non mi viene in mente niente di meglio che half-moon shaped chopping knife. Le persone di fronte a me annuiscono, segno che hanno capito e che posso continuare senza preoccuparmi. Ancora una smorfia perfida da parte del boss alla quale vorrei rispondere con un f**k you urlato nel microfono.

Finita la presentazione ci sorbiamo ancora il rinfresco, durante il quale continuo a tradurre domande e risposte. Alcuni si complimentano con il capo per l’intervento e con me per la traduzione. Sono gentili e per me significa molto perché hanno capito che non è un compito semplice, soprattutto con un personaggio del genere.
“Fa solo il suo lavoro!” risponde lui, ammazzando sul nascere ogni mio entusiasmo. Simpatico, come sempre. Ma il peggio è passato, domani andrà meglio, no?

ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA DI STEFANO TENTI – IN WORLD’ SHOES: TUTTI I DIRITTI RISERVATI ALL’AUTORE

39 pensieri riguardo “In viaggio col capo: la presentazione alla Oxford University

  1. quanto mi mancavano i tuoi racconti di viaggi col capo! Sei bravissima perchè riesci a ironizzare su delle situazioni orribili e, credimi ti capisco bene. Senza arrivare ai livelli del tuo, anche io ho avuto una capa del genere e ogni volta che dovevo partire al suo seguito carica come un mulo mentre lei ancheggiava sui tacchi, mi sentivo cenerentola.

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    1. Allora sì che mi puoi capire! Io una volta ho dovuto portare due trolley – il mio e il suo – con la borsetta su una spalla e quella del computer sull’altra che continuavano a scivolarmi verso il pavimento. Il disagio! Ma perché questi capi non si mettono mai nei panni dei loro sottoposti???

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  2. Finalmente è tornato uno dei tuoi racconti sul Boss, che più carino e simpatico con l’umanità lavoratrice non potrebbe essere, eh…? Mamma mia, che zoticone!
    Che bellezza il vostro albergo ex prigione! Seppur più ristretto, infatti, mi ha fatto subito saltare alla mente l’immagine che ho ben impressa nella testa della prigione dublinese Kilmainham gaol.
    Ti immagino, tradurre il concetto di putagè!!! 🙂 🙂 🙂 Complimenti!

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  3. E in quale partizione della memoria nascondevi questa chicca? Se fino a poco tempo fa mi chiedevo come mai avessi tagliato i rapporti con il tuo vecchio lavoro (nonostante i viaggi) ora invece sento di darti tutta la mia solidarietà e la mia stima per aver resistito anche troppo! Non mi meraviglierei se lui avesse avuto la tua bambolina voodoo alla quale in questa occasione abbia perfidamente strappato l’impermeabile! 😀
    E mi domando anche come facciano le collaboratrici attuali a sopportarlo (o magari si è addolcito con l’età?)
    Comunque Silvia hai “orato” ad Oxford, cosa che non succede tutti i giorni! ❤

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  4. Oddio che incubo viaggiare con un despota simile, tu però sei stata bravissima a destreggiarti tra tutti i suoi stratagemmi per non cadere. Un grazie era davvero il minimo che avrebbe dovuto dirti ma si sa che le persone più si sentono arrivate ed al potere, e più dimenticano l’umiltà a casa….

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  5. Sarà perché non sono brava con le lingue ma tradurre simultaneamente non è una cosa da poco e so lo studio e le difficoltà che ci sono dietro per poter fare un lavoro del genere! E prima di andarmene, io l’avrei urlato quel f**k you! 🙂

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