Ricordando un viaggio: l’eroe delle aringhe di Leinøy

Ha una lunga barba bianca e la pancia tonda, vive in Scandinavia e quando ride fa “Oh oh oh oh”. Non è Santa Klaus, ma è pur sempre una figura leggendaria nella regione norvegese del Møre og Romsdal. Jan è colui che ha salvato una tradizione già diffusa all’epoca dei re vichinghi: l’affumicatura delle aringhe.
Incontro Jan per la prima volta quando mi viene a prendere al porto di Ålesund. Ho raggiunto la città dopo una notte di navigazione sull’Hurtigruten, il postale che da Bergen naviga lungo i fiordi norvegesi fino ad arrivare a Kirkenes, all’estremo nord del paese.

Sono rimasta sul ponte per l’ultima ora di navigazione, nonostante il vento gelido, ma non volevo perdermi la vista della costa frastagliata e dei villaggi a picco sui promontori: alcuni di questi, ancora oggi, possono essere raggiunti solo via mare. A febbraio non ci sono molti turisti: oltre a me, solo un gruppo di altre quattro o cinque persone scende a Ålesund.

Anche se Jan non fosse l’unica persona sul molo, lo avrei identificato comunque: è l’uomo sulla cinquantina, corpulento, con la lunga barba bianca e il cappotto di pelle lungo fino al ginocchio. Non sfigurerebbe sul set di un film, nella parte di uno scagnozzo della mafia russa. Per fortuna non è qui per ridurmi a pezzettini e farmi sparire nelle botti di legno usate per conservare le aringhe, ma per portarmi a Leinøy, un villaggio che insieme ad altri piccoli centri e isolette del Rovdefjorden fa capo alla municipalità di Herøy. Mi piacerebbe avere un po’ di tempo per vedere Ålesund, ma Jan ha fretta di arrivare a destinazione.
Come spesso succede in Norvegia, due posti che in linea d’aria distano poco meno di 30 chilometri ne richiedono tre volte tanto via terra. La strada segue la linea frastagliata dei fiordi, e a un certo punto siamo costretti a imbarcarci su un traghetto prima di proseguire sulla terraferma. Per chi non potesse usufruire di un passaggio in auto, è comunque possibile raggiungere Leinøy grazie alla Boreal, un servizio combinato di traghetto e autobus.

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Arriviamo dopo quasi due ore di viaggio e non c’è molto da vedere: un molo innevato, qualche raggruppamento di case colorate, delle imbarcazioni, un edificio di legno bianco, basso e lungo. Leggo sull’insegna che si tratta della Njardar, l’azienda a conduzione famigliare dove Jan si dedica da anni alla salvaguardia di un prodotto che rischia di scomparire. Nella reception una donna scambia qualche parola in norvegese con Jan, poi mi offre un caffè e mi invita a indossare camice, sovrascarpe e cuffia. Mentre cerco di mandare giù la bevanda troppo calda e troppo leggera, Jan inizia a raccontarmi la storia delle aringhe norvegesi. Fa fatica a esprimersi in inglese, ogni tanto usa parole in tedesco e in norvegese, ma la passione per quello fa non gli impedisce di farsi capire. Mi racconta di come uno dei suoi primi ricordi sia quello dell’odore delle aringhe che sua madre arrostiva direttamente sui carboni del fuoco della cucina. Mi parla di grossi pesci color argento che venivano prima arrostiti, poi appesi sopra al camino per affumicare. Le aringhe erano servite in insalate, o insieme alle patate bollite.

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Gli scavi archeologici dimostrano che le aringhe erano un elemento fondamentale della dieta dei norvegesi già nel 600 a.C. Nel XIII c’erano addirittura delle leggi che regolavano la pesca all’aringa, con descrizioni meticolose degli attrezzi impiegati e l’elenco delle punizioni previste per i pescatori che non rispettavano i metodi di pesca e di conservazione. L’attività legata alle aringhe, dalla pesca, alla salatura, all’affumicatura, rappresentava la maggiore fonte di guadagno della regione. Jan mi racconta che fino al XIX secolo esistevano almeno un migliaio di locali per la salagione, dove le aringhe venivano salate e poi conservate in barili di legno. Un commercio fiorente che ha subito un lento declino.
Domando a Jan cosa sia successo: com’è possibile che da mille aziende si sia arrivati a contare sulle dita di una mano i laboratori che si dedicano a questa attività?

Le cose sono peggiorate negli ultimi cinquant’anni, mi spiega Jan mentre ci spostiamo, fermandoci al punto di raccolta delle aringhe, dove ogni giorno i pescatori consegnano il pescato. Le cause del declino sono due: innanzitutto la natura, dato che l’abbondanza di pesce degli anni Cinquanta è stata seguita da annate meno generose. L’altra causa della scomparsa di questo prodotto sta nello sviluppo industriale: le grosse aziende alimentari si sono orientate verso prodotti più facili da commercializzare, facendo sì che poco alla volta le aringhe artigianali sparissero dalle dispense norvegesi. Oltre alla perdita graduale di una parte importante del patrimonio gastronomico della regione, l’industrializzazione del settore alimentare ha avuto pesanti conseguenze economiche sulla regione: la maggior parte delle aziende ha chiuso i battenti, una dopo l’altra.

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Passiamo nel reparto della lavorazione, dove alcune ragazze sono concentrate nel lavoro di selezione e preparazione delle aringhe: viene fatto tutto a mano, per cui sono necessarie manualità, precisione e una certa velocità, che le giovani addette hanno imparato dalle donne più anziane. Mi rendo conto di quanto il lavoro di Jan sia difficile: il rischio è quello di trovarsi, un giorno, senza nessuno che voglia dedicarsi a questa attività o che comunque sia capace di farlo. Cosa succederà quando nessuno sarà in grado di insegnare come si puliscono e si salano le aringhe?
Proseguiamo verso le vasche di salatura, dove le storsild, le aringhe del Mare del Nord, vengono lasciate in salamoia per 60 giorni, non prima di aver trascorso almeno 24 ore sotto sale in barili di legno di abete. Anche in questo caso, Jan si rifornisce da un artigiano che produce botti e la cui attività, un tempo fiorente, rischia di scomparire insieme al commercio delle aringhe.

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Ci spostiamo verso la sezione dove avviene l’affumicatura vera e propria. Dopo i due mesi passati in salamoia, le aringhe vengono lavate e infilzate in una serie di grossi spiedi che verranno poi trasferiti nell’affumicatoio. Questa fase ha una durata che può variare dalle poche ore a un paio di settimane; a seconda del livello di affumicatura, le aringhe verranno suddivise in tre tipi diversi: silver, golden e hard cured.
L’ultima fase è quella del confezionamento: il prodotto finito viene venduto in scatole di legno decorate in maniera semplice.
Alla fine della visita Jan ha organizzato una piccola sorpresa: alcuni ragazzi della scuola di cucina hanno preparato una cena alla quale sono invitati tutti i dipendenti della Njardar.

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“Siamo una grande famiglia” dice Jan indicando le persone che stanno poco alla volta raggruppando nella sala. Normalmente mi sembrerebbe una frase trita e ritrita, ma in questo caso non ho dubbi sulla sua sincerità. Se vivessi qui, non esiterei a considerare Jan un eroe: sta cercando di salvare parte della storia e della gastronomia di una regione e, allo stesso tempo, di salvaguardare l’ambiente promuovendo un tipo di pesca sostenibile, su piccola scala. Attraverso la sua piccola azienda contribuisce in maniera significativa all’economia di un villaggio, impiegando i famigliari dei pescatori nel processo di lavorazione e insegnando ai ragazzi una serie di capacità che diversamente andrebbero perse.
Alla fine della cena mi accompagna all’Hotel Neptun, un piccolo albergo a dieci minuti di macchina. Cerco di prendere sonno ma non riesco a smettere di pensare che la Njardar è una delle ultime aziende rimaste. È una situazione molto comune in Norvegia: spesso la sopravvivenza di un villaggio è possibile solo grazie alla presenza di persone come Jan: eroi inconsapevoli che in condizioni estreme non perdono la speranza e la determinazione.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Blog di Viaggi

29 pensieri riguardo “Ricordando un viaggio: l’eroe delle aringhe di Leinøy

  1. Silvia leggo sempre con interesse e ammirazione (leggi invidia) dei tuoi viaggi in Norvegia ma non ricordavo che fossi stata sul mitico postale! *_*
    Credo che tu abbia avuto la fortuna di vedere una delle ultime realtà locali che purtroppo andranno (ma spero di no in fondo) scomparendo, come tu stessa facevi notare. Scommetto che quando ti capita una pietanza a base di aringhe il tuo pensiero corra a Jan! 😉
    Ti faccio tanti cari auguri di Buona Pasqua Silvia, anche in famiglia! :*

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    1. Sì, ma purtroppo ho passato solo una notte sul battello postale: il massimo sarebbe fare tutto il percorso fino a Kirkenes ma i tempi e i costi aumentano 😉
      Non mangio spesso le aringhe ma quando capita penso a Jan e alle persone che lavorano con lui: soprattutto mi torna in mente l’immagine di un suo collega che le aringhe le mangiava crude!

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  2. Non ricordo se si trattasse proprio delle aringhe, ma ricordo che da piccola venni traumatizzata perché mi raccontarono che – dopo averne pescata una – trovarono al suo interno il dito di un uomo. Da quel giorno non so perché ma associo questo pesce a qualcosa di spiacevole…e neanche ricordo bene il nome!
    Devo per forza chiedere a casa se ricordano questa simpaticissima storiella che mi ha impedito di provare l’aringa per 24 anni! ahahaha

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    1. Oh madonna che storia angosciante! Pensa che io non ho mai assaggiato un fico e mai lo farò perché quando ero bambina mio zio mi aveva raccontato di averne raccolto uno da una pianta, di averlo aperto e addentato e di averci trovato dentro una vespa viva e inferocita. Non sono sicura che sia vero ma sono rimasta traumatizzata, come te con le aringhe 😉

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  3. Hai ragione, è molto triste pensare al fatto che questa sia una delle ultime aziende rimaste… capisco che le condizioni siano estreme, ma spero davvero che qualcuno prenda ispirazione dall’esempio di Jan e porti avanti l’attività! Ignoravo questo processo e adesso capisco il perchè del prezzo elevato, più che giustificato.

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    1. Sì infatti a volte ci limitiamo a prendere in considerazione solo il prezzo di un prodotto, senza pensare a tutto quello che sta dietro. In questo caso si tratta di un villaggio intero e delle famiglie che ci vivono, per cui anche io spero che questa tradizione venga portata avanti.
      Grazie per essere passata ❤️

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  4. Queste sono le storie che amo leggere. Veri reportage in grado di raccontare i luoghi, attraverso la determinazione del suo popolo. E di uomini come Jan che non si arrendono al progresso, alla crisi, alla globalizzazione. Magari si piegano leggermente, ma trovano poi il modo di rialzarsi.
    Penso seriamente che, oggi, sia più che mai importante fare un passo indietro. E tanti giovani fortunatamente lo stanno comprendendo. Mettendo in atto un vero ritorno alle tradizioni. Lo stesso vale per i consumatori.
    Mi auguro di cuore che attività come queste, vengano valorizzate e non affogate dall’industrializzazione.
    Bel reportage Silvia!
    Claudia B.

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    1. Grazie Claudia, sono contenta che la storia di Jan e della sua battaglia ti sia piaciuta! La cosa che mi porta a essere ottimista sul futuro di questa azienda e delle famiglie che ci lavorano è il fatto che i ragazzi della vicina scuola alberghiera siano coinvolti attivamente in diverse iniziativa. Una speranza per il futuro.
      Un bacione 🙂

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  5. Mi scende la lacrimuccia quando leggo racconti così: amo follemente il Nord Europa e tutte le sue storie…rimango incantata davanti a parole e fotografie!
    E’ parecchio triste pensare che la globalizzazione stia mangiando piano piano l’autenticità di questi luoghi fantastici e credo che tu ti sentirai super fortunata ad aver vissuto questa esperienza!
    Grazie per averla condivisa con noi! ^_^

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    1. E pensa che nel mio lavoro precedente mi capitava spesso di trovarmi di fronte a realtà simili, e a incontrare personaggi come Jan che fanno di tutto per opporsi all’omologazione dei sapori. Da un lato sono esperienze che mi hanno dato tanto, anche se spesso, come dici tu, fanno scendere la lacrimuccia.
      Grazie a te per essere passata 🙂

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  6. Ah, le aringhe sono una delle cose che più mi avevano colpito in Svezia (in Norvegia ancora non sono stata…). Primo, perché passeggiando sul lago vedevo tutti gli affumicatoi e mi sembrava di essere in un film, uno di quei thriller nordici che mi affascinano e intrigano. Secondo, perché non credevo fossero così buone! Con pane nero e formaggio, poi…

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  7. Avevo lasciato un commento ma non lo vedo, mi sa che si è perso per strada. Ci riprovo! Le aringhe sono state una delle scoperte più interessanti dei miei viaggi in Svezia (la Norvegia ancora mi manca). Primo, perché gli affumicatoi che ho visto passeggiando in riva a un lago mi hanno ricordato i set di quei thriller scandinavi che mi intrigano tanto; secondo, perché non immaginavo fossero così buone, con pane nero e formaggio soprattutto…

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    1. Ma sì che strano, nemmeno io lo avevo visto il commento precedente, chissà.
      In effetti l’atmosfera sa molto di Camilla Läckberg: villaggi piccoli e un po’ isolati, atmosfere cupe. Ho mangiato di nuovo le aringhe marinate proprio ieri ad Amsterdam: era passato tanto tempo dall’ultima volta e non ricordavo quanto fossero buone!

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