In viaggio col capo: Viaggio Sventure romane

Simone di The World Passenger ha ideato l’iniziativa #LeViaggioSventure, un invito ai viaggiatori a raccontare le loro disavventure di viaggio. Non si dovrebbe ridere della disgrazie altrui, ma i racconti di Simone sono davvero divertenti. Anche Daniela di Orsa nel Carro ha aderito raccontando la sua viaggiosventura dai risvolti tragicomici, e mi ha suggerito di partecipare raccontando uno dei miei viaggi con il capo. Ho iniziato a pensarci, finché mi è tornata in mente una giornata trascorsa a Roma qualche anno fa.

L’occasione era il massimo per una fanatica – come me – di tutto ciò che è British: un invito a un evento presso la residenza dell’Ambasciatore Britannico a Roma. Con la partecipazione di His Royal Highness the Prince of Wales, noto ai più come Principe Carlo. Il mio capo è invitato, e il mio collega ed io andremo a Roma con lui, in qualità di traduttori/assistenti. Cosa vuoi di più dalla vita? Niente, magari che l’Ambasciatore decida di invitare solo me e non il capo. Impossibile, ovviamente. Ma quando arriva l’invito ogni pensiero negativo è dimenticato: apro la busta, mi incanto a guardare il logo, ma soprattutto il mio nome scritto a penna. Sua Altezza Reale ha il piacere di invitare me al ricevimento. Non sto più nella pelle.

Invito Ambasciata

Inizio ad avvertire una sensazione di disagio qualche giorno dopo, quando il mio collega mi annuncia che non partirà con noi: ci incontreremo direttamente nella capitale. Potrebbe sembrare una cosa da poco, ma non è così: questo significa che dovrò fare la strada fino all’aeroporto di Caselle, il volo Torino-Roma, e il tragitto Fiumicino-centro da sola con il boss. In altre parole, per almeno tre ore sarò il suo unico punching ball.

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Photo by Rotem Kuperman from Pexels

Il mattino della partenza scendo alle quattro dopo essermi rigirata nel letto senza aver chiuso occhio: fuori diluvia e il pensiero di guidare fino all’aeroporto non mi entusiasma. Anzi, mi terrorizza proprio. Non amo guidare, e per di più sono abituata alla mia piccola Panda: figuriamoci un’Alfa Romeo 159 con sei marce! Parto con largo anticipo e faccio tappa all’edicola della stazione, dove compro quattro quotidiani perché, come ha suggerito una mia collega, se ha dei giornali da leggere non ti rivolgerà nemmeno la parola. Sistemo il plico sul sedile del passeggero, dirigendomi verso la casa del boss. Abita in una zona pedonale ma chissenefrega del Codice della Strada: non c’è nessuno in giro, quindi imbocco la strada vietata alle auto. Sono in anticipo, ma forse questi minuti mi permetteranno di tranquillizzarmi.

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Photo by brotiN biswaS from Pexels

Poco dopo lo vedo uscire dal portone, di corsa, perché continua a diluviare. Forse se la prenderà con me per il tempo? Sale in macchina senza salutare, si siede sui giornali e impreca.
“Cosa c***o…” esordisce, lanciando i quotidiani sul cruscotto. Metto in moto, bisbigliando qualcosa del tipo: “Ti ho preso i giornali”. Non risponde, limitandosi a fissare fuori dal finestrino. Per i primi cinque minuti non apre bocca, lasciandomi con un interrogativo: meglio il silenzio imbarazzante in questo spazio angusto, o un cazziatone per qualcosa? Ovviamente sceglierà la seconda opzione: me lo sento, il cazziatone è nell’aria. La sbarra del casello dell’autostrada si è appena chiusa dietro di noi quando mi chiede la lista degli invitati. La so a memoria, e inizio a snocciolare nomi, cognomi e titoli. Al quarto nome mi interrompe: vuole sapere perché il segretario di un determinato partito è stato invitato. Provo a spiegargli che siccome questo partito è tra quelli di maggioranza al governo, forse il protocollo prevede che il segretario partecipi a un evento simile. Al capo quella persona non è mai piaciuta: la sua voce rimbomba nell’abitacolo con la forza di un tuono. Penso di aprire la portiera e scaraventarmi giù dalla macchina, ma non essendo 007 devo rassegnarmi e subire lo sguardo del capo che sembra dire: non capisci niente.

Rimaniamo in silenzio per il resto del viaggio: quando vedo l’aeroporto di Torino in lontananza vorrei piangere di gioia. Scarto l’ipotesi di lasciare la macchina al ParkToFly e vado diretta al pluripiano delle Partenze. Il tempo di parcheggiare, scendere dalla macchina, indossare l’impermeabile, prendere la borsa dal sedile posteriore e puff! Come per magia si è dileguato, più veloce di David Copperfield. Non c’è traccia del capo né ai banchi del check-in, né al gate. Quando salgo in aereo mi dirigo verso il mio posto in coda e lo vedo, in una delle prime file. Sta leggendo il giornale, e alza appena lo sguardo per farmi un cenno con il capo, al quale rispondo con uno stupido ciao. Dopo un’ora atterriamo a Roma: come da copione non mi aspetta quando scendiamo dall’aereo. Lo trovo all’uscita, in fila per il taxi. Sbuffa e scuote la testa: “Ma dov’eri finita?” Non gli rispondo; mi siedo sul sedile anteriore, dato che lui occupa tutto il sedile posteriore.

“Dove?” domanda il taxista. Infilo la mano nella tasca dell’impermeabile e arriva la prima ondata di panico. Il biglietto non c’è. Provo l’altra tasca. Niente. Nemmeno nella borsa. Il taxista inizia a dare segni di impazienza, e il capo pure. Terrore puro: dov’è finito il foglio con il nome della via in cui dobbiamo andare? Il ricevimento è a Villa Wolkonsky, ma per l’occasione le strade che la circondando sono chiuse al traffico, per cui un assistente dell’ambasciatore mi aveva indicato il nome della via più vicina. Le strade circostanti sono un labirinto di nomi di principi, re e nobili sabaudi, ma io non riesco a ricordare quale sia quello giusto. Umberto di Biancamano? Carlo Felice? Ludovico di Savoia? O forse Emanuele Filiberto? Quasi in lacrime espongo il mio problema al taxista, che mi salva la vita con una semplice frase: “Non c’è problema, arriviamo fino dove si può e poi continuate a piedi.” Vorrei abbracciarlo, ma sarebbe fuori luogo.

L’unico aspetto positivo è che a Roma c’è il sole. Ma non ho occasione di crogiolarmi a lungo nei pensieri positivi: è l’ora dell’interrogatorio. Il capo è un maniaco dei numeri, della storia e dei nomi: quando andiamo da qualche parte vuole sapere quanti abitanti ha quella città, in che anno è stata fondata, quali sono le principali università. Per non farmi cogliere impreparata, in ufficio abbiamo organizzato una sorta di Lascia e Raddoppia a tema Roma: al di là delle informazioni di base, non abbiamo tralasciato un ripasso veloce su Romolo e Remo. Ho addirittura rispolverato i nomi dei sette re di Roma. L’interrogazione volge in particolare su Villa Wolkonsky, sede dell’evento e residenza dell’Ambasciatore Britannico. Costruita su un terreno di oltre undici ettari della collina dell’Esquilino, è nota per la presenza nel suo parco di 36 arcate dell’acquedotto di Nerone. Avremo occasione di vedere il sontuoso giardino e alcune delle sale insieme all’Ambasciatore e al Principe Carlo. Quando arriviamo a destinazione non mi aspetta mentre pago il taxista e si dirige all’ingresso senza di me. Ho gli inviti in borsa, per cui quando arrivo mi guarda con disapprovazione.

Per fortuna il mio collega è già lì ad aspettarci: superati i controlli di sicurezza mollo il capo con la scusa di andare in bagno. Mi guardo allo specchio, senza quasi riconoscermi: l’occasione richiedeva un abbigliamento formale, quindi ho dovuto abbandonare i soliti jeans e scegliere un paio di pantaloni neri, una camicia verde e écru e una giacca nera da smoking. Ho anche messo un paio di scarpe verdi di Marc Jacobs comprate a Londra e pagate una fortuna. È una mia impressione o iniziano a farmi male, proprio all’altezza dei talloni? Le vesciche ai piedi sarebbero proprio la ciliegina sulla torta.

Quando torno nella sala del ricevimento tutto sembra più o meno sotto controllo: il Principe ha avvisato che tarderà, per cui possiamo iniziare la visita dei giardini. Una volta concluso il giro, veniamo accompagnati all’interno, dove ci aspetta il buffet a base di prodotti inglesi: non metto niente sotto i denti dalla sera prima, quindi mi lascio tentare da una tartina con salsa allo Stilton e miele. E, come al rallentatore, vedo il formaggio fuso, bianco e verdognolo, scivolare dalla tartina sulla mia camicia, appena sotto il colletto.

Provo a ripulirmi con un tovagliolo inumidito, ma non c’è niente da fare. La macchia rimane lì: misura quanto una moneta e ha l’aspetto di una cacca di piccione. Non c’è modo di nasconderla, a meno che non decida di togliermi la camicia e indossarla al rovescio, o con l’abbottonatura sulla schiena. Mi rassegno all’idea di incontrare il Principe Carlo con la camicia macchiata. Quando arriva stringe la mano a tutti, me compresa, e sono sicura che per un istante il suo sguardo finisca proprio sulla macchia di Stilton. Fa un breve discorso, poi con l’Ambasciatore e con il capo si trasferisce in una saletta per un breve colloquio privato. E finalmente l’evento è finito.

Ma la giornata no. Quando lasciamo Villa Wolkonsky potremmo andare direttamente a Fiumicino, dove io potrei stramazzare sul pavimento del gate. Invece il capo vuole andare all’Hotel Cavalieri di Monte Mario per prendere l’aperitivo: trenta minuti di taxi a trenta euro, tre bicchieri di bollicine più salatini a ottanta euro. Lo scherzetto ci costa un occhio della testa, e già mi chiedo come giustificherò la spesa alle colleghe dell’amministrazione. Quando mi riprendo dallo shock il capo mi informa della sua decisione: vuole rimanere a Roma, quindi devo cambiare il suo biglietto aereo. Noi possiamo tornare a Torino, per fortuna. Chiamo l’agenzia di viaggi, dove in dieci minuti cambiano la prenotazione. Torno dal capo, che per la prima volta in questa giornata mi sorride. Sembra quasi affabile quando dice: “Grazie, gioia.” Annuisco, evitando di guardare il mio collega: sta pensando che non devo illudermi che gioia sia un vezzeggiativo. Se mi ha chiamata così è perché con ogni probabilità non ricorda il mio nome. Mi sento un po’ come Andrea Sachs, ma Miranda è una dilettante a confronto.

Le ore successive sono confuse come in un sogno: salutiamo il boss, prendiamo un altro taxi per Fiumicino e ci imbarchiamo per Torino. Quando arriviamo al parcheggio inizio a ridere: e se avessi perso le chiavi della macchina? No, per fortuna sono al loro posto, nella tasca interna della borsa. Le cedo al mio compagno di sventura, che si offre di guidare, mentre io prendo posto sul sedile del passeggero.
“Questo è tuo?” chiede mentre ci immettiamo sulla tangenziale. Mi porge un biglietto piegato in quattro, lo apro e rido di nuovo: è il foglio sul quale avevo scritto le indicazioni per arrivare a Villa Wolkonsky. Lo riduco in pezzetti minuscoli, apro il finestrino e li vedo volare via dietro di noi, lungo la A55.

ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA DI STEFANO TENTI – IN WORLD’ SHOES: TUTTI I DIRITTI RISERVATI ALL’AUTORE

19 pensieri riguardo “In viaggio col capo: Viaggio Sventure romane

  1. L’avevo letto nella newsletter e lo rileggo con molto piacere Silvia!
    Hai toccato l’apoteosi quando hai salutato il Principe Carlo con l’outfit “piccioneè” 😀
    Ma come ha fatto il tuo capo a dileguarsi così alle partenze e a comparire già seduto sull’aereo? Voglio conoscere la sua tecnica!!
    Ciao Gioia! 😉

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  2. Ahahaha l’ho sempre detto io che mi ricorda troppo “il diavolo veste prada” il tuo capo/le tue esperienze di lavoro! ahahah come quella volta che non ricordo chi, forse proprio il capo, andava girando con un prosciutto/ cosciotto di pollo / altro nella borsa…o ricordo male? insomma, c’è sempre qualcosa di tragicomico nei tuoi racconti e se, come immagino, questa è solo una delle tantissime esperienze che hai avuto occasione di vivere allora durante le cene con amici-parenti sarai l’anima della festa! ahahah io morirei a sentirti raccontare tutte queste cose! :’D
    Un bacione ❤

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    1. Ricordi benissimo: viaggio in Norvegia dove io trascinavo una valigia su per i fiordi e la mia collega aveva un prosciutto intero nella borsa. Ne avevo parlato nel tag #IlMioBagaglioPer ma forse dovrei fare un post dedicato a quel viaggio insieme al “diavolo in abiti di Prada” 😉

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  3. Ciao Silvia! Spero di non avere mai un capo del genere, veramente insopportabile. Che pazienza vero? 🙂 Comunque più che sventura, questa storia potrebbe avvicinarsi anche ad un racconto horror ahahah “……Sopravviverà al capo?”

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